venerdì 29 maggio 2020

Delle apparenze

Le apparenze ingannano. 
È un'affermazione banale ma vera. 
Le apparenze sono, appunto, quello che riusciamo a vedere senza andare oltre, senza indagare.
Le apparenze stanno in superficie. Molto spesso tacciono la sostanza. 
Limitandoci a soppesare le apparenze, tracciamo differenze tra noi e gli altri. Differenze evidenti ma spesso irrilevanti. 
Oppure il contrario, vediamo somiglianze nelle quali ci riconosciamo ma che, in fondo, valgono poco.

Eppure continuiamo a usare questo approccio ingannevole per decidere chi ci assomiglia di più. Solo esternamente, però, guardando l'involucro.
E siamo sicuri di vivere nel posto giusto, in mezzo ai nostri simili. 

Ma davvero?

Io, è da un pezzo che non penso più così.
Nascere da una parte invece che da un'altra è una semplice casualità.
È quello che ci capita dopo, mentre viviamo, che ci definisce. Un pezzo dopo l'altro, un colpo di scalpello dietro l'altro. 

Il mondo è un luogo vasto. Da qualche parte - sono sicura - esisterà qualcuno che mi assomiglia veramente. 
Oltre le apparenze.








sabato 23 maggio 2020

Delle cicatrici

C'è stato un tempo quando le cicatrici erano un vanto. Stavano a dire quanto si era vissuto e, soprattutto, quanto avventurosa fosse (o fosse stata) la nostra vita, quanto intrepida ed eroica. 
Era il tempo prima di diventare adulti.
Poi, non si sa bene come, le cicatrici sono diventate il segno dei fallimenti, delle cadute, della debolezza. Evidenze da nascondere o di cui vergognarsi.

Siamo cambiati.
Forse abbiamo dimenticato il gusto sapido che si prova a lanciarsi in imprese spericolate a perdifiato sul sentiero dei nostri anni giovani.
Forse siamo diventati più timorosi, ci sentiamo meno invincibili.
O, più probabilmente, è cambiato lo sguardo che rivolgiamo a noi stessi, condizionati dalle pressioni che ci vengono da questa società ammalata di protagonismo, alla ricerca incessante del successo preconfezionato o della perfezione estetica. 

Oggi ho contato le mie cicatrici. Le ho accarezzate e osservate attentamente. Insieme alle rughe, alle macchie e a tutti gli altri segni che il tempo mi ha lasciato addosso.
Mi è venuta voglia di fare "a gara" con qualcuno, come facevo da piccola. Vediamo chi ne ha di più. Vediamo chi ha vissuto più forte, chi ha rischiato di più. 
Vediamo chi vince!






martedì 19 maggio 2020

Ricominciare

L'ultimo post risale a giugno dello scorso anno. 
Qualcuno legge ancora i blog? 
Questo blog?
Una persona mi ha suggerito di ricominciare a scriverci comunque.

Va bene.
Ricomincio.

Certe volte mi sembra molto difficile essere me. Insistere a voler essere me. Aderire alla forma che mi appartiene, occupare ogni spazio di quello stampo unico. Perché, se mi adeguo a quella forma, non riesco a trovare una collocazione comoda in mezzo a voi altri.
Do fastidio. 
Voglio cose.
Pretendo qualità.

Peso le parole.
"Ma chi ti credi di essere?"
Chi?
Già.
Mi avete confusa. Prima lo sapevo bene, poi mi sono persa per cercare di trovare una collocazione in mezzo agli altri. E non l'ho trovata lo stesso.

Ho scelto la forma di ragionevolezza sbagliata. 
È tardi per provare a vivere in un altro modo?
Da un'altra parte?
Irragionevolmente, istintivamente, pericolosamente?

È tardi per andare alla ricerca del senso del mio essere ancora viva?



mercoledì 19 giugno 2019

Dei punti di riferimento

Placare l'irrequietezza. Trovare la serenità. Ci provo da sempre. Ogni tanto ci riesco. 
Non dura. 
La maggior parte delle volte cerco d'ignorare quella voce che mi pungola da dentro; creo rumore intorno. Ma poi arriva sempre il silenzio e, nel silenzio, non posso far altro se non stare lì ad ascoltarla. 
Quello che mi chiede è di far pace. Con tante cose. Soprattutto mi chiede di far pace con me stessa ma chi ci ha provato sa quanto sia difficile far pace con se stessi. Spesso non basta una vita. 
E poi quella voce mi chiede anche ripetutamente di muovermi, di andare, di staccarmi dal porto sicuro. È la cifra che mi ha sempre contraddistinta, fin da piccola. Lo aveva capito bene mia nonna paterna che mi chiamava zannière, zingara. In passato le davo ascolto con la prontezza dei miei anni giovani. Oggi, prossima al mezzo secolo di vita, oppongo resistenza. Ma, più resisto, più l'irrequietezza aumenta. 
Allora, quando mi sento in trappola e arrabbiata, e mi viene voglia di ruggire come una tigre, sento il bisogno impellente di trovare una sponda, qualcuno che mi ascolti, che mi dica le parole giuste per catalizzare le energie disordinate verso un'unica direzione; quelle parole che sono già dentro di me ma che non riesco a trovare. Ho bisogno di un'amica. (O di un amico.) Ho bisogno di un punto di riferimento.
Ma le amiche (o gli amici) sono esseri umani e, in quanto tali, mutano. O scompaiono. O non sono disponibili. Non possono essere un punto di riferimento. I punti di riferimento devono essere immutabili, coerenti, affidabili. Noi cambiamo, come è giusto che sia. Loro non possono, non devono. 
Nel tempo ne ho trovati diversi. Pochi, a dire il vero, ma abbastanza perché smetta di ruggire. Abbastanza perché mi senta riconosciuta e compresa.
Stamattina ho avuto bisogno di uno di loro. Di un libro. Il mio testo sacro. L'ho tirato fuori dalla mia libreria e ho detto: "Vieni! Ho bisogno di te."
I libri raccontano sempre la stessa storia, con le stesse parole. Eppure noi cambiamo e, ogni volta che li rileggiamo, leggiamo una storia diversa che ci parla sempre nello stesso identico modo. E, finalmente, trovo le parole che mi servono. E mi sento riconosciuta e compresa.


Mentre creiamo, questo essere selvaggio e misterioso ci crea a sua volta, colmandoci di amore. Siamo evocate come le creature sono evocate dal sole e dall'acqua. Siamo rese tanto vive da poter a nostra volta dare vita. Esplodiamo, ci dividiamo e ci moltiplichiamo, ci fecondiamo, coviamo, distribuiamo, doniamo. [...] Quando in un modo o nell'altro la creatività rimane stagnante, il risultato è sempre il medesimo: fame di freschezza, fragilità della fertilità, nessun posto in cui le forme di vita più piccole possano vivere negli interstizi tra le forme di vita più grandi, nessun nutrimento per le idee, nessuna vita nuova. Allora ci sentiamo male e desideriamo allontanarci. [...] Stare con le persone vere che ci riscaldano, che approvano ed esaltano la nostra creatività, è essenziale al flusso della vita creativa. Altrimenti ci congeliamo. [...] Se avete perduto il fuoco, la concentrazione, sedete e state quiete. Prendete l'idea e cullatela. In parte tenetela e in parte buttatela, e si rinnoverà. Non vi occorre null'altro.
~ Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi 




venerdì 12 gennaio 2018

Delle dighe che crollano

La prima forma di protezione è far finta di non vedere, ignorare, negare.
È uno stadio che può durare a lungo. In alcuni casi, non finisce mai.
Ma, quando finisce, la presa di coscienza, il riconoscimento, è improvviso e le conseguenze di ciò sono ineluttabili. Come una diga che crolla. Le crepe c’erano, ben visibili, ma sono state ignorate. E la diga, alla fine, ha ceduto. Tutto quello che c’era al di là della diga viene travolto dalla potenza dirompente dell’acqua trattenuta a forza nel bacino. Una vastità di lacrime. Bisogna piangerle tutte prima che ritorni la quiete; prima che l’acqua occupi lo spazio che le è naturalmente proprio e si plachi.
Ma anche dopo, quando le lacrime sono state piante tutte, bisogna affrontare la distruzione che il crollo della diga ha comportato; contare i morti e i feriti gravi, gli alberi abbattuti, gli animali trascinati via, la terra mangiata dall’acqua, sommersa. Un disastro. 
Eccetto che per l’acqua che, finalmente, ha rotto i muri troppo stretti che la trattenevano e ha potuto scorrere liberamente, prendere più spazio. Tutto quello che ha potuto. Tutto quello che naturalmente le appartiene. Gli uomini l'avevano intrappolata per poter disporre della sua energia, per soddisfare i propri bisogni. Ma sono diventati superficiali e arroganti. Hanno ignorato le crepe, i cedimenti strutturali. E l’acqua ha rotto la diga.

L’acqua ha rotto la diga.
Forse non è il caso di costruirne un’altra. Non ancora. Prima bisogna imparare a costruire meglio le dighe.



giovedì 17 agosto 2017

Del leggere



Ho comprato il libro On Reading di André Kertész. Un libro fotografico nel quale l'autore ungherese celebra l'arte solitaria del leggere. Pubblicato nel 1971, raccoglie immagini scattate tra il 1915 e il 1970. Il 1915 era un secolo fa. Nel 1971 sono nata io. E, infatti, le foto contenute nel libro raccontano di un altro mondo. Un mondo del quale io ho avuto solo un piccolo assaggio nei primi anni della mia vita. Poi ha cominciato a cambiare, quel mondo. Rapidamente, sempre più rapidamente. Così rapidamente che ormai si è sempre in ritardo su tutto. E noi, affannati, gli corriamo dietro.
Le immagini di Kertész, invece, raccontano dei tempi dilatati del leggere; raccontano di pause e silenzi; di spazi interiori dove la fretta, l'impellenza, le pressioni di fuori scompaiono. Scompare il rumore, scompaiono le folle.
Venice. September 10, 1963
Era anche un altro tempo, sicuramente. Un tempo per il quale, però, provo un'istintiva nostalgia. Nonostante le atrocità che hanno avuto luogo nel secolo scorso, nonostante le ingiustizie e le brutture di cui è stato testimone quel tempo, c'era anche una bellezza autentica (nei gesti, nei volti, nei modi) che oggi faccio fatica a ritrovare. 
A pagina 23 c'è l'immagine di un uomo, per strada a Venezia, seduto su una scalinata, il soprabito sotto il sedere, intento a leggere. Un gatto sonnecchia accoccolato non distante dall'uomo che legge. Ho sorriso quando mi sono trovata la foto davanti. Ho sorriso istintivamente. Ho provato un'istantanea serenità e poi il desiderio intenso di essere lì, su quella scalinata, con il gatto e il libro e la strada deserta. Un respiro profondo di sollievo.
L'autenticità è la chiave di volta. Gli scatti di Kertész sono pieni di poesia ma è una poesia autentica, non ricercata, simulata, posticcia. 
Forse oggi risento troppo di questo tempo sempre più caotico, frettoloso e volgare. La cafoneria e l'apparenza vuota dilagano. Io mi sento fuori posto ché non ho voglia di fingere di essere felice e di divertirmi a più non posso. E non ho nemmeno voglia di sgomitare per farmi spazio tra la folla. Piuttosto mi ritiro in un angolo e faccio silenzio. Prendo un libro e, attraverso le sue pagine, vado dove mi piacerebbe essere. Vado altrove. Nel mio altrove. Perché, quando i riflettori si spegneranno, quando il chiasso diventerà una flebile eco e avrà ceduto spazio al silenzio e al vuoto, io, almeno, avrò ancora un posto dove andare.


Hospice de Beaune, France, 1929

domenica 30 aprile 2017

Dell'attesa breve

C'è un cuore che batte. 
tutum
tutum
Lei chiude gli occhi. 
tutum 
Lui l'abbraccia. 
tutum 
Lei poggia la testa sul petto di lui. 
tutum
Il vento fa sollevare la tenda della finestra aperta. 
tutum
Lui dice: "Non piangere." 
tutum
"Non piango.", dice lei. 
tutum
tutum
Lei si scosta, lo allontana da sé. 
tutum
Lo guarda negli occhi. 
tutum
"Non piango, vedi?", ripete.
tutum
"Ciao, allora.", dice ancora. 
tutum
Lui la prende per un braccio mentre lei si muove per uscire dalla stanza. 
tututum tututum tututum tututum...
Lei libera il braccio dalla stretta di lui. "Ciao.", ripete.
tututum tututum tututum tututum tututum...
Lei esce. Si chiude la porta alle spalle. 
Lui resta solo nella stanza. 
Il vento solleva ancora la tenda.
Silenzio.